Quando arte contemporanea, architettura e performance riescono a dialogare: su Metropolitan Art

È ancora, purtroppo, assai radicata quella plurisecolare divisione fra le arti che porta a rigide e oramai anacronistiche classificazioni: Amanda, dunque, è stata felice di partecipare a Metropolitan Art, un «percorso artistico-culturale» messo a punto da Stalker Teatro/Officine CAOS in stretta e fruttuosa collaborazione con il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli/Museo d’Arte Contemporanea. Si parte da Porta Susa e il bus/navetta porta gli spettatori al Castello di Rivoli, dove un’approfondita visita guidata alla collezione permanente così come alla mostra temporanea Colori consente di conoscere da vicino le opere che hanno ispirato la performance Reaction, cui ci assiste alle Officine Caos. Ma, prima di giungere alla sala teatrale, gli spettatori/turisti hanno l’opportunità di esplorare alcune zone delle Vallette, il periferico quartiere di Torino dove ha sede il teatro: due volontari raccontano con pacato ma sincero entusiasmo la genesi di un’area cittadina pensata come utopico luogo comunitario dagli architetti – assai noti – che la progettarono e che, nondimeno, gli effettivi abitanti non vissero come tale e che il trascorrere del tempo e la scarsa cura hanno tramutato in zona in parte degradata. Nessun restauro conservativo, dunque – a differenza di quello, esemplare, compiuto dall’architetto Andrea Bruno all’ex residenza sabauda di Rivoli – e l’abbandono al proprio destino di un quartiere tuttora ricco di potenzialità – basti pensare ai numerosi spazi verdi che lo punteggiano…

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Ma che c’entra tutto questo con il teatro? C’entra, e non solo perché le scene che compongono l’articolata performance cui si assiste sono libere reinvenzioni e “animazioni” delle opere esposte al Castello di Rivoli; e non solo in quanto esse sono state sviluppate nel corso di lunghi laboratori con gli abitanti del quartiere – alcuni dei quali in scena – e finalizzati all’educazione all’arte così come alla creazione artistica; ma soprattutto poiché la performance è la coerente conclusione di un percorso di conoscenza e consapevolezza, che acutizza lo sguardo e mobilita la sensibilità degli spettatori. Un cammino che stimola a riconoscere e connettere invisibili legami e insospettate affinità; a individuare l’arte e la bellezza in luoghi abitualmente negletti; a far dialogare liberamente cuore, mente e occhi, rimanendo felicemente stupiti di quanto essi hanno da dire.

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Metropolitan Art #2 – Il vedere acceso, progetto di Stalker Teatro e Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli/Museo d’Arte Contemporanea; percorso compiuto il 24 giugno 2017.

 

 

Tre giovani danz’autori a Teatro Akropolis: sugli spettacoli di Marrapodi-Orlacchio e Valrosso.

Amanda è stata ospite del festival “Testimonianze, ricerca, azione”- organizzato da otto anni da Teatro Akropolis a Genova – in occasione della serata Anticorpi EXPLO, dedicata alla “giovane danza d’autore”.  Una sorta di vetrina organizzata in collaborazione con il Network Anticorpi XL – di cui Teatro Akropolis è referente per la Liguria – la prima rete nazionale indipendente per la promozione della danza contemporanea di qualità. I due brevi spettacoli ospitati dal festival genovese hanno dunque offerto un piccolo ma significativo specchio di tendenze e umori della giovane scena italiana, concentrandosi, in particolare, sul lavoro di tre danzatori: la coppia Marrapodi-Orlacchio e Davide Valrosso. La prima, partendo da un’approfondita riflessione filosofica su simmetrie e antitesi, coesistenza e incontro, mette in scena il difficoltoso ma alfine fruttuoso percorso di avvicinamento fra due creature che, non a caso, vestono in modo speculare al contrario: l’uno maglietta blu e bermuda ocra, l’altro maglietta ocra e bermuda blu. Nella prima parte dello spettacolo i due danzatori occupano spazi distanti del palcoscenico, muovendosi autonomamente e dando vita in sostanza a due assoli: lentamente, però, le direzioni delle rispettive coreografie si avvicinano fino a incontrarsi così da trasformarsi in un passo a due simmetrico e –pur freddamente – appassionato. Rinuncia al solipsismo, riconoscimento della necessità dell’altro e dialogo fervente con quest’ultimo: il duo Marrapodi-Orlacchio sintetizza tutto ciò in venti minuti di danza raffinata e cerebrale, misurata e intima, concentrata ed evocativa. Aggettivi che, in parte, possono essere applicati anche all’assolo proposto da Davide Valrosso, che agisce su una scena limitata sul fondo da un’insolita schiera di coniglietti di plastica bianca. Il danz’autore disegna un altro percorso, quello – in realtà privo di una meta definitiva – alla ricerca della bellezza; un viaggio compiuto avvalendosi della grazia e dell’armonia insite nel gesto e nel movimento così da scoprire, alla fine, quanto nella danza stessa sia già insita quella bellezza che, nondimeno, necessita di attenzione e cura incessanti.

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Cosmopolitan Beauty, coreografia e danza di Davide Valrosso; La partita sull’aria, coreografia e danza di Nicola Marrapodi e Roberto Orlacchio; visti al Teatro Akropolis di Genova il 29 aprile 2017 all’interno della VIII edizione del festival Testimonianze, ricerca, azioni.

Indagare il mito per comprendere il presente: su Ifigenia, liberata di Dematté/Rifici

Gli attori sono già sul palcoscenico, salutano il pubblico in sala, ammiccano ad amici e conoscenti; d’altronde quello a cui stiamo per assistere è un vero e proprio dramma meta teatrale, sul genere di Questa sera si recita a soggetto… L’atmosfera, nondimeno, non è certo quella pirandelliana e il regista – Tindaro Granata – si guarda bene dal vessare gli attori, bensì li accompagna con salda tenerezza alla ricerca del proprio personaggio, in costante e fertile dialogo con la sua drammaturga, Mariangela Granelli. L’obiettivo dello spettacolo, frutto di un progetto condiviso dalla drammaturga Angela Dematté e dal regista Carmelo Rifici, è infatti quello di esplorare insieme al pubblico il mito di Ifigenia così da “liberarlo” dalle stratificazioni ideologiche, politiche e psicologiche accumulate nel corso dei secoli. In scena, dunque, vediamo una compagnia impegnata nelle prove di un originale allestimento della tragedia di Euripide, rivista e corretta alla luce di quanto al proposito hanno scritto filologi e antropologi, filosofi e letterati. Il tema centrale è quello dell’origine della violenza e la sua sopravvivenza nei secoli e, collegati a esso, i motivi della ricerca/necessità di capri espiatori da sacrificare, l’omicidio rituale e il labirinto come simbolo di quelle viscere in cui l’uomo si forma prima di venire al mondo… Il dibattito su questi argomenti – a volte dai toni un po’ troppo didattici – si alterna e compenetra con la “prova” di alcuni dei frangenti più significativi della tragedia stessa – di preziosa intensità i duetti Clitennestra/Agamennone (Senesi/Ribatto), Agamennone/Ifigenia (Ribatto/Traversi) e Ifigenia/Vecchio (Traversi/Crippa) – e alle azioni del coro – le ironiche e incisive Caterina Carpio e Francesca Porrini. Ecco nei momenti in cui l’urgenza didattica si attenua e la forza del teatro – con la sua capacità di commuovere e far pensare, ridere e soffrire – si riprende la scena lo spettacolo conquista matura efficacia, proponendo anche originali soluzioni registiche, inventive e ironiche, e mostrando si saper sfruttare al massimo la bravura indubbia del cast e la monumentale ma flessibile scenografia ideata da Margherita Palli.

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Ifigenia, liberata, di Angela Dematté e Carmelo Rifici (anche regista), con Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio, Vincenzo Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahi Traversi; visto al teatro Strehler di Milano il 2 maggio 2017.

   

L’irresistibile seduzione del potere: su Lear di Edward Bond

Lear è uno dei play più noti di Edward Bond, scritto nel lontano 1971 e nondimeno ancora assai istruttivo nel suo descrivere l’inesorabile scivolare nella tirannia di chiunque abbia la sorte – per eredità, per legittima elezione ovvero in seguito a sanguinosa rivolta – di acquisire il comando di un regno. Molto liberamente ispirato all’omonima tragedia shakespeariana, il play è stato adattato e portato in scena da Lisa Ferlazzo Natoli, con protagonista Elio De Capitani. Amanda ha assistito allo spettacolo in una delle sue date milanesi, curiosa di capire come la giovane regista avesse affrontato il testo di Bond: in generale, infatti, la pur ricca ed efficace drammaturgia britannica giunge non così sovente sui palcoscenici nostrani e, in molti casi, la trasposizione si rivela incolore. C’è una pratica e, soprattutto, un’idea di teatro peculiarmente british che risultano ostiche e, in sostanza, non familiari e fin estranee a quelle nostrane. Amanda sta ovviamente generalizzando ma chiunque abbia messo piede in un teatro inglese capisce quale differenza esista: una distanza generata, appunto, da una concezione del teatro atavicamente diversa… Comunque, per tornare allo spettacolo – una scena eclettica, con pochi elementi che consentono veloci ma pregnanti cambi di ambientazione e un telo grigio, nella parte alta, sul quale vengono scritti personaggi e luogo dell’azione – si può dire non del tutto soddisfacente. Certo gli interpreti – alcuni impegnati in più ruoli – offrono interpretazioni di alta qualità, l’apparato scenografico e sonoro – una sorta di composita coperta di suoni avvolge la messa in scena per tutta la sua durata – sono ingegnosi e suggestivi; eppure… Lo spettacolo procede con qualche apprensione, affaticato e insicuro, tanto che la violenza – delle situazioni e soprattutto della riflessione sulla natura umana – insita nel play risulta prosciugata, come una lama non più affilata da troppo tempo. Come se, ancora una volta, la differenza di latitudine fra Inghilterra e Italia avesse interferito e inficiato il meritorio tentativo di traduzione e trasposizione.

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Lear, di Edward Bond, adattamento e regia di Lisa Ferlazzo Natoli, con Elio De Capitani, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Pilar Perez Aspa, Diego Sepe, Francesco Villano; visto al teatro Elfo Puccini di Milano il 30 aprile 2017.

 

L’oscura banalità del male: su Macbeth essere (e) tempo di Archiviozeta

Purtroppo Amanda non è ancora stata ad assistere allo spettacolo che, ogni anno, nel mese di agosto, la compagnia Archiviozeta mette in scena al Passo della Futa, in quel luogo ancora denso di inquietudini, recriminazioni, dubbi e ferite che è il Cimitero Militare Germanico. Per farsi un’idea dell’originale lavoro della compagnia, guidata da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, Amanda è andata al teatro Sala Fontana, dove è stato riallestito il lavoro realizzato l’estate passata, ovvero Macbeth. Una fitta nebbia avvolge il palcoscenico, così da introdurre immediatamente lo spettatore in una dimensione “altra” eppure irrevocabilmente terrena, quella abitata dal protagonista, che è un essere umano – per sua natura fragile e contraddittorio – catapultato suo malgrado in una realtà parallela – quella, forse solo un sogno, plasmata da Ecate-donna lupo e dalle sue streghe. Macbeth è sopraffatto da paura e ambizione, ansia e desiderio di potere, un’aspirazione quest’ultima che, nondimeno, Archiviozeta pone in secondo piano, per concentrasi invece sul nucleo oscuro dell’anima del protagonista, quell’assenza di scrupoli, ovvero di coscienza tout court, che in breve tempo lo tramuta da nobiluomo ligio alle medievali regole del cavalierato a gelido tiranno. Una facilità di abbandono di sé fra le accoglienti braccia del Male di cui la compagnia implicitamente indica la regolare replicabilità nella storia dell’umanità portando in scena la riproduzione del disegno realizzato dal pilota dell’Enola Gay per progettare la traiettoria di volo e di lancio della bomba atomica su Hiroshima. Quel semplice schizzo diventa la lettera che Macbeth invia alla Lady, il mantello issato a un ampio cerchio variamente utilizzato nel corso dello spettacolo. Uno dei molti eclettici e suggestivi oggetti/arredi di scena che concorrono a costruire l’innegabile personalità di un lavoro che si interroga con rigore sull’origine del male e sulla sua rapidità di penetrazione nel cuore degli uomini, certo agevolata dall’ontologica paura che ne avvolge l’esistenza.

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Macbeth essere (e) tempo, regia di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, anche interpreti con Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci, Alfredo Puccetti; visto al teatro Sala Fontana di Milano il 9 aprile 2017.

La solitudine dell’attore: su Minetti e Recita dell’attore Vecchiatto

Due sere di teatro; due serate di amara ma sapientemente autoironica riflessione sull’arte del teatro. Una meditazione ognora attraversata dall’acuta consapevolezza della marginalità del teatro in una società impegnata a stordirsi nei festeggiamenti per il Capodanno (in Minetti) ovvero a seguitare pigramente la quotidiana routine della provincia italiana (nella Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto). In entrambi gli spettacoli attori di lungo corso, con una carriera più o meno gloriosa alle spalle, inesorabilmente interrotta da atti di orgogliosa coerenza con la propria arte. Ecco dunque Minetti: come risaputo, non un personaggio d’invenzione, ma uno dei protagonisti della scena teatrale in lingua tedesca, cui Thomas Bernhard regala il suo umore caustico, la sua lucidissima visione dell’arte degli uomini. Minetti giunge in un albergo di Ostenda, lì invitato – forse, probabilmente un autoinganno – dal direttore di un importante teatro che intende offrirgli la parte del suo amato Lear. Circondato da uomini che indossano maschere grottesche, Minetti pronuncia il suo monologo, una sorta di testamento spirituale – ma senza nostalgia, sentimento estraneo alla gelida ma straziante causticità di Bernhard – in cui ripercorre un’esistenza in cui il rifiuto della letteratura classica – ovvero della sterile e vuota ripetizione della cosiddetta “tradizione” – gli è costato l’emarginazione dalla società teatrale tedesca. Analogamente Achille e Carlotta Vecchiatto si ritrovano a recitare i loro arguti sonetti in una sala vuota, solo una donna “resiste”, altri tre o quattro potenziali spettatori si siedono ma subito se ne vanno. Così Roberto Herltzka/Minetti e Claudio Morganti/Achille ed Elena Bucci/Carlotta celebrano la “rumorosissima” solitudine degli attori, esseri egocentrici e in fondo fragili che tuttavia proclamano orgogliosamente la propria necessità di esistere nell’umana società. Una necessità che Bernhard mette problematicamente in discussione, per invitare, però, a non darla per scontata, a non rivestire con il manto della classicità la propria sterilità artistica –  e la propria malafede. Un invito a quell’autenticità dell’ispirazione – anche a costo di essere sgradevoli come certo fu il drammaturgo austriaco – mirabilmente esemplificata da Achille, capace di allestire una piccola “recita” in un supermercato a uso e consumo di una donna “offesa” dalla macchinetta automatica per le fotografie…

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Minetti, di Thomas Bernhard, regia di Roberto Andò, con Roberto Herlitzka, visto al teatro Carignano di Torino il 5 aprile 2017. Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, di Gianni Celati, con Elena Bucci e Claudio Morganti, visto a San Pietro in Vincoli, Torino, il 6 aprile 2017.

Quanto è difficile essere contemporanei: su Giulio Cesare di Alex Rigola

Un “classico” in quanto tale condensa in sé temi e valori universali, che hanno a che fare con l’essere umano di ogni epoca e che appaiono evidenti fin dalla lettura e/o fruizione scenica del testo stesso. Questo per dire che, allorché un regista decida di allestire un cosiddetto classico, la sua visione della contemporaneità dell’opera stessa risulterà lampante dalla messa in scena, senza necessità di ridondanti e didascaliche spiegazioni. Una sicurezza che, si è convinta Amanda, non possiede Alex Rigola, il quale ha bisogno di far precedere l’inizio del suo allestimento del Giulio Cesare di Shakespeare da un breve video in cui mostra Obama, Hillary e Stato Maggiore degli USA riuniti nella Sala Ovale ad assistere all’operazione che condusse alla cattura e all’uccisione di Bin Laden; immagini chiosate da interrogativi quali: può la violenza essere combattuta con la stessa violenza? Può un uomo insignito del premio Nobel per la pace ordinare un assassinio? E il video si conclude con un primo piano del cadavere del piccolo Aylan, il bambino siriano naufragato su una spiaggia greca. Cadavere che, nel finale dello spettacolo, diventerà un enorme bambolotto gonfiabile ricoperto da una montagna di ossa che vengono man mano portate via fino a svelarlo. Ma torniamo all’inizio: che bisogno c’è di fornire allo spettatore le “istruzioni per l’uso” di una tragedia che parla da sé e che richiede, affinché la sua “violenta” e straordinaria modernità risultino palesi, soltanto una regia salda e un cast all’altezza. Fattori che, purtroppo, non contraddistinguono – almeno non in misura accettabile – lo spettacolo di Rigola e ciò malgrado l’iconica e autorevole incarnazione di Giulio Cesare da parte di Maria Grazia Mandruzzato e una seconda parte decisamente più sicura, sia dal punto di vista scenico – il repentino susseguirsi degli eventi bellici e politici reso dall’alternarsi rapido degli attori ai microfoni posizionati in proscenio – che da quello del ritmo, finalmente congruente e incalzante. Peccato che questa seconda parte si concluda con il succitato disvelamento del fantoccio del cadavere di Aylan: una scelta che, anziché provocatoria ovvero generatrice di costruttive riflessioni sul persistere della guerra e sulle responsabilità dei governi occidentali, appare superficialmente gratuita.

 

Giulio Cesare, di William Shakespeare, regia di Alex Rigola, con Michele Riondino, Maria Grazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno… ; visto al teatro Carignano di Torino il 18 marzo 2017.TSV_Giulio Cesare_foto di Serena Pea (15)

Fare i conti con le proprie radici: su Neverending di Liberamenteunico

Non esita a fare nomi e cognomi, a portare in scena vicende familiari private, a rivelare con un sorriso faticoso personalissime debolezze e paranoie. Barbara Altissimo – in scena dopo molti anni passati dietro le quinte, come regista e animatrice di significativi laboratori, primo fra tutti quello realizzato presso la Casa di cura Cottolengo di Torino – porta sul palcoscenico se stessa e il proprio “ingombrante” cognome. Un “ingombro” che, nondimeno, da poco tempo, è diventato, all’opposto, un vuoto incolmabile. La morte del padre – Renato Altissimo, esponente di punta del partito liberale, deputato e ministro, coinvolto pur tangenzialmente in Tangentopoli – è rielaborata in scena sotto forma di originale rituale collettivo, adattato alla nostra contemporaneità e alla particolarità di una vicenda che si vorrebbe soltanto privata ma che, inevitabilmente, è da sempre stata anche pubblica. Quell’invincibile sentimento di assenza che sempre accompagna la perdita di un genitore deve dunque trovare forme non esclusivamente intime per incanalarsi. Ecco, allora, la rievocazione delle origini della famiglia Altissimo e della nascita e maturazione di Renato fino al germinare della sua carriera politica e, parallela a essa, quasi una rivendicazione di dovuta attenzione, il ricordo della propria infanzia e degli anni trascorsi a New York. La vita familiare si mescola alla vicenda pubblica di Renato, da cui viene inesorabilmente plasmata. È la presa d’atto di quanto la propria personalità e le proprie scelte di vita siano state influenzate in parte – quanto, è difficile stabilirlo – dalla biografia e dalle scelte del genitore, figura amatissima e con la quale è impossibile non confrontarsi. E Barbara non esita a raffrontarsi anche con gli aspetti meno limpidi dell’esistenza del padre – non tanto quelli legati alla politica quanto quelli inerenti il privato, come testimonia l’efficace sipario ambientato nella sala d’aspetto dell’ospedale romano dove Renato è stato ricoverato – testimoniando un’ammirevole capacità di ironizzare su stessa e sulla propria famiglia. Accompagnata dalla musica dal vivo di Ivana Messina, la regista-attrice mostra di essere riuscita, pur con disperata e struggente auto-ironia, a giungere a patti con il proprio passato.

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Neverending, di Barbara Altissimo, anche in scena con Ivana Messina; drammaturgia di Emanuela Currao; visto alle Officine Caos di Torino il 17 marzo 2017.

La solitudine della sincerità: su Truman Capote. Questa cosa chiamata amore.

Amanda conosce Truman Capote come l’autore di Colazione da Tiffany – poi celeberrimo film interpretato dalla “gattara” Audrey Hepburn – e di A sangue freddo, romanzo-inchiesta che anticipa un certo contemporaneo – e oggi piuttosto perverso e voyeuristico – interesse per delitti efferati tratti dalla cronaca quotidiana. Il monologo – una forma che, mai come in questo caso, è anche contenuto ché Truman non può che essere solo sul palcoscenico – scritto da Massimo Sgorbani ed empaticamente interpretato da Gianluca Ferrato, è un modo per esplorarne con rispettosa indiscrezione l’anima, tormentata e composita. Quello di Sgorbani, infatti, non è un testo accademicamente biografico, bensì sentimentale, meta letterario, sociologico… La scena è un aldilà immaginato quale un ampio soggiorno occupato da un lungo tavolo scuro – su cui l’interprete si arrampica ovvero smonta per mostrare fotografie d’epoca – da svariate sedie e da tre lampadari che, l’uno dopo l’altro, scompaiono oltre la graticcia a segnalare l’oscurità imboccata dall’esistenza di Truman. E quest’ultimo si rivolge ora al pubblico, ora a quelle sedie su cui immagina concreti interlocutori, cui rivolgere argute, ciniche, dolenti riflessioni sulla propria vita – l’infanzia con una madre noncurante, l’oltraggiata omosessualità – e sulla società – quella democratica e intellettuale, liberal ed elegante – in cui egli si aggirava, scrittore ricercato per il suo orgoglioso e ostentato anticonformismo ma, per lo stesso motivo, tenuto a tratti a debita distanza. Sì, perché il vero dramma della brillante esistenza dello scrittore Truman Capote – assai fascinoso, come testimonia la foto che lo mostra al debutto nello scintillante mondo della letteratura newyorkese – fu proprio la sua spavalda “diversità”, non tanto sessuale quanto, più radicalmente, ontologica. Un uomo che non può impedirsi di dire ciò che vede; di svelare ipocrisie e travestimenti; di ironizzare con cinica disperazione su Bob e John Kennedy analizzandone le foto dei corpi scattate all’obitorio; di piangere inconsolabilmente senza lacrime osservando il volto tumefatto di un altro cadavere, quello dell’amica Marilyn Monroe, cui gran parte del monologo è implicitamente indirizzato. Truman diceva di sé, «sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio», con la dolorosa consapevolezza di quanto la sua “geniale” diversità, la sua vista acutissima e incapace di finzione lo avessero condannato all’auto-distruzione. La sincerità senza compressi di Truman non può che portare alla solitudine, nella vita e sul palcoscenico. L’auspicio di Amanda è che il pubblico, in parte sconcertato dalla schiettezza del personaggio ma pronto ad applaudire calorosamente allorché Ferrato, dopo gli applausi, cita un altro “diverso”, ossia Pier Paolo Pasolini, sappia riflettere sulla incredibile velocità con cui uomini scarsamente tollerati in vita per la lucidità del loro sguardo diventino dopo la loro morte –  e loro malgrado – veri e propri “eroi” del loro tempo – povero P.P.P. Speriamo che spettacoli sinceri come questo spingano a leggere quanto davvero scrissero uomini di pensiero quale, appunto, Truman Capote e quale il nostro Pasolini.

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Truman Capote/Questa cosa chiamata amore, di Massimo Sgorbani; regia e scenografia di Emanuele Gamba; con Gianluca Ferrato; visto al teatro Gobetti di Torino il 15 marzo 2017.

Incontrarsi danzando: su Le fumatrici di pecore di Abbondanza/Bertoni

Ci sono spettacoli che sono una vera delizia, per lo spirito e per il cuore. Uno di questi è sicuramente il “passo a due” ideato e realizzato in scena da Antonella Bertoni con Patrizia Birolo, un’ artista «portatrice sana di diversa abilità», conosciuta nel corso di laboratori tenuti a Torino per la compagnia teatrale La Girandola. Le due donne apparentemente “diverse” – per portamento, presenza scenica, tecnica – portano in scena la propria relazione: di amicizia, di reciproco insegnamento, di cura. Brevi coreografie, disegnate su musiche che vanno dal trascinante Tiziano Ferro urlato a squarciagola da Patrizia a Mahler. Ma anche sipari surreali: assi trasportate sulle spalle come croci e, poi, tante piccole pecore, statuine da presepe estratte dalle tasche dei neri grembiuli indossati dalle due performer e posate su un tavolo sghembo ovvero disinvoltamente “fumate”. Ecco il riferimento – non la spiegazione, ché essa non esiste – del titolo: una suggestione, essa stessa spensieratamente surreale, su un certo modo di intendere la propria esistenza. Libertà di essere se stessi, anche nella propria diversità, che è fonte di orgoglio e non di sofferenza o di emarginazione. Essere se stessi anche quando il mondo che ci circonda consiste in una sedia traballante senza schienale e in un tavolo con solo tre gambe; anche se costretti a trasportare pesi immani. La fatica di vivere intensamente se stessi si supera se s’impara a riconoscere l’altro e a sostenersi reciprocamente – Patrizia dice ad Antonella, mi occupo io di te…  Le due danzatrici regalano sorrisi e commozione, ricordandoci quanto sia importante vivere la propria vita, qualunque essa sia.

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Le fumatrici di pecore, ideazione, coreografie, scene e costumi di Antonella Bertoni; regia di Michele Abbondanza; con Antonella Bertoni e Patrizia Birolo; visto a Cubo Teatro di Torino il 12 marzo 2017